Il consiglio municipale di Terni rispose con una lettera discussa ed approvata il 14 agosto del 1752. In merito all’agricoltura il consiglio ricordava che si trattava di un territorio e di un contado dall’estensione limitata, ma “così ben coltivato che non ammette miglioramento”. Un settore “saturo”, quindi, quello agricolo. Da cui si ricavava già il massimo.
E la produzione artigianale? C’erano opifici sufficienti? Rispose il consiglio al papa: “La città abbonda di edifici per cartiere, valchiere, tintorie, oltre le mole da grano e da olio, quali tutte lavorano a forza d’acqua”. Per di più, aggiungeva, “Vi è l’arte della seta tanto di cavarla dai bocci, quanto di lavorarla e farvi spumiglioni ed altri drappi. Vi sono molti commodi per la concia delle pelli per far suole ed altri corami… Vi è l’arte di far tele di canape”. Un quadro più che soddifascente, sembrerebbe. Ma gli addetti a tutti questi opifici, si faceva presente, “sono molto diminuiti, anzi ridotti al niente”. Specialmente in crisi erano le arti della seta e della concia che avrebbero potuto assicurare molti posti di lavoro, ma – sottolineava il consiglio – mancavano “il denaro e le persone commode”. Carenza di investimenti e d’investitori, insomma. E la crisi economica cittadina, che appariva a quel punto piuttosto pesante non poteva esser risolta – concludeva il consiglio municipale di Terni – aumentando il numero gli opifici, come sembrava fosse disposto a fare il papa, ma assicurando una maggiore disponibilità del credito, si direbbe oggi.
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Fonte: Lodovico Silvestri,
“Collezione di memorie storiche
tratte dai protocolli
delle antiche riformanze della
città di Terni dal 1387 al 1816″.
Ristampa a cura di Ermanno Ciocca.
Terni 1977, Ed. Thyrus.