La crisi della “Veneta” e i timori per la “Terni”

Allo scadere del 1892 l’assemblea dei soci della “Società Veneta per imprese e costruzioni pubbliche” attirava l’attenzione degli ambienti imprenditoriali e finanziari che con profondo interesse aspettavano di la sorte di una delle realtà più consistenti del capitalismo e dell’impresa in Italia.

Presidente Saffat acciaierie di Terni
Vincenzo Stefano Breda

Non era in buone acque la Società Veneta: in pochi anni aveva accumulato perdite tali che era diventato ormai poca cosa il capitale di trenta milioni di lire posseduto nel 1884. Fu quello l’anno di massimo fulgore, quello in cui la “Veneta” fu “motore” della nascita delle acciaierie di Terni. Il valore delle azioni, che era di 200 lire al momento della costituzione della società, era salito a 300. Ma nel 1891 era sceso a 35 lire. Un crollo, cui il Consiglio di Amministrazione cercò di porre freno attarversò forti economie: presidente e cosngilieri rinunciarono allo stipendio; ci furono parecchi licenziamentiti specie tra gli impiegati, fu ridotto il salario a coloro che rimasero. La gestione delle acciaierie di Terni ebbe una propria, consistente parte nella dilatazione delle perdite a causa dell’onerosità degli investimenti iniziali, ragion per cui Vincenzo tefano Breda, il presidente della Veneta, fu al centro di aspre di critiche e polemiche, tanto che lasciò la presidenza delle Saffat, la “Terni”. (la riprese nel 1894).
La Saffat (Società altiforni e fonderie di Terni) era nata ufficialmente nel marzo del 1884 quando davanti al notaio Contessa di Stroncone, “Cassian Bon & Compagni” ne siglarono l’atto costitutivo sottoscrivendo un capitale di tre milioni di lire, diviso in seimila azioni del valore di 500 lire cadauna. La grande maggioranza di quelle azioni era, per vie dirette o traverse, nelle mani della Società Veneta o di personaggi della finanza patavina: 3.612 azioni erano possedute direttamente dalla “Veneta”; altre 900 erano di Vincenzo Stefano Breda. Cassian Bon, con le proprie 1035 azioni era, in pratica, l’unico socio di minoranza considerato che per il resto i titoli erano – per l’appunto – nel portafogli di banchieri e imprenditori veneti, spezzettate in piccoli pacchetti.
Ovvio che quindi anche da Terni si guardasse con una certa apprensione a quel che sarebbe accaduto a Padova il 29 dicembre 1891, giorno dell’assemblea.

La battaglia di Lissa
La battaglia di Lissa

Anche perché quei primi anni di attività per le acciaierie di Terni non furono per niente facili. L’iniziativa aveva preso avvio per soddisfare principalmente un paio di esigenze fondamentali. La prima era la necessità per il nuovo stato italiano di dotarsi di una produzione strategica, quella siderurgica, per la quale dipendeva fortemente dall’estero; la seconda era avviare un programma di costruzioni di navi da guerra che allontanasse per sempre il fantasma, divenuto quasi un incubo, della sconfitta navale di Lissa del 1866, quando le corazzate italiane furono aperte come scatole di sardine negli speronamenti con le navi austriache. Servivano corazze “vere”, più consistenti. E questo era quel che si voleva dalla Saffat. Che avviatasi su tale tipo di produzione, ben presto si rese però conto che non poteva sopravvivere contando solo su commesse statali e, in ogni modo, non solo su commesse concernenti la produzione di corazze.
Alla notizia della convocazione dell’assemblea straordinaria degli azionisti con all’ordine del giorno la “Proposta di riduzione del capitale e provvedimenti relativi” c’era chi si aspettava, e chi temeva, che in potessero essere prese clamorose, estreme decisioni. Cosa che comunque, non avvenne, anche se il segnale che uscì da quella infuocata e lunghissima riunione degli azionisti, tenutasi a Padova, non fu dei migliori. Si procedette, infatti, a una consistente diminuzione del capitale che fu portato da 14 milioni 266 mila e 500 lire a otto milioni tondi tondi. Il resto, ossia sei milioni, 266 mila e 500 lire fu trasferito in un fondo riserva pronto a coprire “altre eventuali perdite”.
Fin dalla sua costituzione la Società Veneta s’era segnalata per vivacità imprenditoriale e capacità tecniche e, nel mondo finanziario e capitalistico italiano, era generale il riconoscimento delle qualità di Vincenzo Stefano Breda. Tra le iniziative e i lavori eseguiti i più importanti erano stati la nascita delle acciaierie di Terni, la costruzione degli acquedotti di Padova, Venezia, Verona e Napoli, i porti di Licata e Genova, le banchine di Brindisi e Venezia oltre alla costruzione e gestione in proprio di seicento chilometri di ferrovie e tramvie.

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