Terni,14 ottobre ’43: ecco perché l’allarme fu dato mentre già cadevano le bombe

di LORENZO MANNI

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Quello del 14 ottobre 1943 è ricordato come “il bombardamento senza allarme”. In effetti l’allarme antiaereo su Terni risuonò solo pochi istanti prima dell’arrivo dei bombardieri. Come mai? Quali furono le circostanze che determinarono un così grave ritardo?

Qui di seguito riporto la testimonianza diretta di Ovidio Lolli, il quale fu direttamente coinvolto nella vicenda. .

Le sirene dell’allarme antiaereo a Terni furono installate ben prima che iniziassero i bombardamenti della città. Erano comandate a distanza per via telefonica del comando Dicat (Difesa contraerea territoriale) attraverso la centrale telefonica della Timo (Telefoni Italia Medio Orientale). Tutto funzionava solo se c’era disponibilità di corrente elettrica“, spiega Lolli.

In occasione del secondo bombardamento di Terni (il primo c’era stato in agosto), alcune delle bombe caddero nell’area compresa tra la fine di via Roma, il fiume Nera, ponte Romano; a breve distanza, quindi, dalla palazzina della Dicat situata a poche decine di metri dal fiume. Le bombe danneggiarono le linee elettriche ed i cavi dell’alta tensione caddero sulla palazzina del comando e sulle linee telefoniche rendendo inutilizzabili i comandi a distanza, Era saltato il collegamento con le sirene situate alla ex Gil, nei pressi della Passeggiata, e al Palazzo del Governo in piazza Tacito. Le linee elettriche erano cadute sulle linee telefoniche oltre che sulla palazzina Dicat, il cui comando si dovette trasferire alla Macchia di Bussone, in un edificio oggi ristrutturato e destinato a civile abitazione che sorge lungo la Salaria, nei pressi dell’odierno convento delle suore Carmelitane.

Spostato il comando era necessario collegare le linee telefoniche di via Roma e della Macchia di Bussone con trecciole militari, ognuna delle quali collegava i vari paesi della provincia addetti all’avvistamento di aerei nemici.

A quel punto restava da risolvere il problema dei guasti alle sirene (che rimasero fuori uso per alcuni giorni). La Dicat cercò di rintracciare il tecnico addetto all’assistenza, il quale però risultò introvabile o impossibilitato ad intervenire nell’immediato. Un dipendente Timo, trasferito alla Dicat per obblighi militari, propose di rivolgersi ad un tecnico della compagnia telefonica, che, infatti fu invitato a controllare se i danni erano riparabili. Quel tecnico era appunto Ovidio Lolli, che allora aveva 17 anni.

I relais dei centralini di comando delle sirene si erano completamente bruciati – ricorda Lolli – sia quello della Gil (la Gioventù Italiana del Littorio) che quello del Palazzo del Governo. Andavano sostituiti ma non ce n’erano disponibili”. Al che dissaldò i collegamenti e poi staccandoli dal muro li portò alla centrale TIMO: “I relais danneggiati erano molto simili a quelli delle cassette duplex telefoniche, recuperate dagli operai tra le macerie del primo bombardamento, quello dell’11 agosto 1943. Ci provai. Rimisi al loro posto i collegamenti. Restava da provare se le sirene funzionassero o meno. Per farlo fu necessario chiedere il permesso del comando tedesco il quale acconsentì a patto che si desse solo un segnale lungo, come di cessato allarme. Intanto la cittadinanza era stata informata del guasto alle sirene, ed in molti si erano accampati in prossimità dell’ingresso dei rifugi antiaerei. Sentendo risuonare nuovamente le sirene, si tranquillizzarono e tornarono alle loro case. A quel punto mancava ancora la possibilità per la DICAT di comandare le sirene a distanza perché sprovvisti di altra linea telefonica, per questo pensai di comandare le sirene direttamente dalla centrale TIMO. A questo scopo realizzai un pannello elettrico fornito di tasti e lo collegai alle linee corrispondenti alle due sirene“.

Da quel giorno la DICAT in caso di allarme avvisava il tecnico e lui azionava le sirene.

Pochi giorni dopo alle 7,30 del 14 ottobre 1943 fui chiamato dalla Dicat affinché controllassi se tutto era posto: il dubbio nasceva dal fatto che il posto di avvistamento di Montecampano, alla consueta prova mattutina non aveva risposto. Ad una verifica la linea risultava essere regolare e solo dopo insistenza della DICAT continuai a chiamare. Dopo alcuni minuti rispose un contadino di passaggio il quale riferì che non era lì per rispondere, ma di chiamare lui dato che aveva visto tre cacciabombardieri che si dirigevano su Terni. Immediatamente avvisai la Dicat chiedendo il permesso di dare l’allarme. La risposta fu che prima era necessario il consenso del comando tedesco che invece lo negò per il fatto che in caso di allarme avrebbero dovuto fermare una colonna che era già in marcia“.

Il tecnico, a quel punto, avvisò del persolo i colleghi che scesero nel rifugio sottostante, poi sapendo da quale direzione sarebbero arrivati gli aerei, si mise a guardare fisso verso la Montagna della Croce e appena vide spuntare tre aerei, incurante del divieto, si precipitò a dare l’allarme ad intervalli brevissimi per far capire l’urgenza e far sì che era necessario ripararsi in fretta, prima che le bombe cominciassero a cadere.

Finito il bombardamento e dato il cessato allarme presi la bicicletta e mi precipitai a vedere cosa fosse successo: in Piazza Tacito c’era già un un carro su cui gli uomini dell’ UNPA (Unione Nazionale Protezione Antiaerea) stavano caricavando i cadaveri. Dal tipo di buche capii che erano stati sganciati spezzoni, bombe “antiuomo” che scoppiando rasoterra producevano migliaia di schegge. Le facciate dei palazzi erano tutte bucherellate come pure la colonna centrale della fontana e i tralicci dell’illuminazione stradale. Molti riuscirono a salvarsi perché bastò loro rifugiarsi nell’androne di un qualsiasi edificio“, racconta Ovidio Lolli. “Immagini terribili, Tornato in sede trovai ad aspettarmi i soldati tedeschi, che mi arrestarono e mi condussero al comando tedesco situato in via Roma nel palazzo Cittadini. Mi chiusero in un magazzino. Durante la notte sentii un gran via vai di automezzi tedeschi fino verso le quattro del mattino. Poi un grande silenzio. Dopo circa un paio d’ore arrivarono i colleghi della TIMO che entrati nel palazzo ormai abbandonato dai tedeschi, mi chiamavano. Detti alcuni colpi sulla porta del magazzino, così loro tolto il catenaccio esterno mi permisero di uscire. Dove fosse finito il comando tedesco non si è mai saputo“.

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