Borgo Garibaldi e i soprannomi: da Sparacione a Magnapicchia

TERNI MIA

di LORENZO MANNI

mANNI Borgo

di LORENZO MANNI

Per gli “indigeni“ della borgata (Borgo Garibaldi, meglio conosciuto come San Valentino) era usuale chiamarsi con un soprannome, un’usanza che era diffusa in tutte le parti della città. Il soprannome si estendeva a tutti i componenti di una famiglia: figlio di…, nipote di… moglie di … mettendo al centro della attenzione il “titolare” del soprannome che passava in eredità di padre in figlio quando il titolare era costretto a “cedere il passo”.

Il soprannome poteva essere ispirato dalle caratteristiche fisiche come: Sparacione (per indicare una persona alta e magra), Lu Moru, Bellajioma e Bellicapilli, Lu Ricciu, Fringuillinu, Chiuinu, Lu Passeru, Lu Scoccale, Capoccione, Frinfrinu (soprannome che non ebbe lunga durata perché attribuito ad un fascista della zona, di piccola statura il quale durante il ventennio usava vestire sempre con la camicia nera e fez, ma innocuo), Lu Potente (personaggio che durante il ventennio invece era un confidente della milizia e per nulla innocuo), Lu Boe, etc…

Poi c’erano i soprannomi che avevano origine dai mestieri che nel Borgo venivano esercitati: Lu Fontanaru o Stagninu ( idraulico ), Lu Legnarolu, Lu Biciclettaru, Scarnicchju (castratore di maiali), Scortichinu (macellaio), Accettone (acconciatore per uomo), Lu Porchettaru, etc.

Uno di questi giorni con il mio amico Angelo (Lu Bersajiere), “indigeno” anche lui, ci metteremo a tavolino, davanti ad un bicchiere di vino per stilare un elenco più completo dei soprannomi , moltissimi dei quali non sono più in uso.

Tutto ciò mi fa ripensare ad un fatto avvenuto nel locale bar/circolo culturale che era il punto di riferimento di molti abitanti della zona. Fra gli altri personaggi che lo frequentavano c’era un signore anziano, claudicante che si aiutava con un bastone, non molto alto e rotondetto: all’anagrafe si chiamava Emidio, ma tutti lo chiamavano Magnapicchia, a causa di un tic estraeva continuamente e ripentinamente la lingua fuori dalle labbra.

Era un pensionato, non aveva una famiglia, soltanto un nipote che si occupava di lui alla bisogna, ed era un assiduo frequentatore del locale, specialmente nei periodi invernali, dove trovava calore non solo “ termico” ma soprattutto amicizie e compagnia.

Così quel pomeriggio, alcuni giorni prima di Natale, c’era anche lui nel locale.

Era usanza, durante il periodo natalizio,”giocare d’azzardo” con le carte napoletane. La cifra dell’azzardo era molto bassa in quanto le condizioni economiche dei giocatori non erano eccezionali; poteva capitare che qualche sera si presentasse un “facoltoso” che ci lasciava qualche “penna “ ma il piatto normalmente non superava mai le quattro o cinquemila lire, oltre alla cosumazione d’obbligo per ricompensare “Lu Biscazziere“ (gestore del locale ) dei costi di gestione.

Quel pomeriggio, la moglie di un “giocatore“, stanca dell’assenza del marito da casa e sapendo dove fosse, avvisò la questura denunciando il luogo della “bisca“.

Magnapicchia, convinto che ci fossero i giornalisti, nonostante il suo zoppicare, saltava da un tavolo all’altro per farsi fotografare, poi dette le generalità, come gli altri, agli agenti, sempre con sua originaria convinzione che sarebbe assurto agli onori della.

Questo gli comportò una denuncia per gioco d’azzardo. Fortunatamente il funzionario della questura capì che qualcosa non quadrava in quella denuncia e chiamò Magnapicchia in questura per chiarimenti. Venne accompagnato dal nipote ed insieme chiarirono la situazione; a lui non fu confutato alcun reato, mentre gli altri, insieme a “Lu Biscazziere“ dovettero pagare una multa, superiore e non di poco, al “piatto“ in gioco quel pomeriggio.

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