Gabbio, una chiesa romanica e i resti di una rocca

Si poteva star sicuri. La battuta “ferale” quanto scontata qualcuno, prima o poi, l’avrebbe fatta. Ed infatti eccola lì, inesorabile come il destino: “Tutti ar Gabbio”, dice un romano di una quarantina di anni. Meno male, così sulla navetta che porta – appunto –  a Gabbio, frazione di Ferentillo abbarbicata sulla montagna, il gruppo che era in attesa sulla piazza del paese della Valnerina ternana può salire con un pensiero in meno.

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I resti della rocca di Gabbio

Gabbio è uno dei postI che il Fondo ambiente italiano vuol far conoscere in occasione delle “Giornate del Fai”. Serve, la navetta. Perché la strada è un’ex mulattiera che si inerpica. E’ lunga forse quattro chilometri e a farla a piedi c’è il rischio di restare sfiatati. Lo sanno, quelli del Fai. E’ per questo che hanno approntato una navetta. Che ti lascia sotto al paesetto: “So’ ‘n paio de curve” dice l’autista “se fa comodamente a piedi”. Un corno. La strada va su così, ripida da metter pensiero a chi non è tanto abituato a camminare e per di più in là cogli anni. C’è una range rover ferma lì vicino. “Vado sui – dice un signore gentile – chi vuole può salire, finché ci stiamo…”. “Meno male – dice uno – io ho le fibrillazioni atriali,  mica ci voglio lasciare le penne”. In auto, quella strada si fa bene. E’ romano il guidatore. Non se uscirà mica anche lui con la battuta “ar Gabbio”! “Io qui ci abito – dice – Io e la mia famiglia siamo gli unici abitanti. Me ne innamorai che avevo dieciott’anni; da queste parti ci venivo a fare le arrampicate. Così convinsi mia madre a comprarre un rudere e risistemarlo. Poi ne comprai io un altro paio”.

In auto si va su agevolmente. La strada è praticabilissima e, quando arrivi alle mura, c’è un cartello: “Si prega di parcheggiare a spina di pesce»”. Perché di auto su ce ne vanno. C’è anche una struttura ricettiva. Il paesetto è stato in parte recuperato, a spese e per iniziativa dell’unico capofamiglia. “Sa’ – dice – io faccio l’architetto. E’ stato appassionante”. E ti mostra quello che era il forno pubblico, le mura del contrafforte – perché anche Gabbio faceva parte del sistema di difesa del ducato longobardo di Spoleto. Su, in alto, a strapiombo, una parete di roccia, viva, bianca. Ingabbiata, davvero: mica è un gioco di parole!

“Hanno messo in sicurezza tutto, adesso” spiega l’architetto. Ma verso la metà del secolo scorso gli abitanti furono evacuati d’imperio: il costone roccioso minacciava di crollare. Bisognava fare alcuni lavori. E proprio mentre li facevano un pezzo di montagna venne giù e sfondò la vecchia chiesa.

Adesso l’hanno rimessa a posto. E’ stato rifatto il tetto. E’ stato recuperato tutto quel che era recuperabile. Ma gli affreschi di un’intera parete sono andati perduti. La chiesetta, intitolata a San Vincenzo Martire, era in origine un edificio Romanico che fu rimesso a posto e quindi rimaneggiato nel ‘500. Con un portale rinascimentale dell’epoca, sovrapposto a quello originale Romanico. Sopra il portale una nicchia, che una volta conteneva una qualche immagine sacra, “ma c’è chi è salito fin quassù quando il paese era disabitato e se l’è rubata”, spiega la guida del Fai.

L’interno della chiesa e gli affreschi di Francesco da Lugnano

Dentro ci sono affreschi firmati – quelli rimasti sulla parete sinistra – da Francesco da Lugnano, risalenti al 1534. La piccola abside è ricoperta da un altro affresco: questo ricorda nella fattura e nell’”imprinting” quello, più grande, del Duomo di Spoleto. Visto il pozzo, che si trova vicino alla chiesa (“C’era e c’è acqua, una ricchezza ai tempi del ducato”, dice ancora la guida) s’è visto ormai tutto. A piedi si va giù verso la navetta. “Parto quando semo pieni”, dice l’autista. Ma ci vogliono pochi minuti. Si scende a Ferentillo. Tra i passeggeri mancano il romano “battutaro” , sua moglie e una coppia di amici loro. Saranno rimasti “ar Gabbio”…

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