I ternani e il Natale nei secoli scorsi: le mense povere e i cenoni dei ricchi

Quello dell’anno di grazia 1501 non fu un gran Natale per i ternani. Anzi, dovettero passarlo in ristrettezza. Ordine del papa Alessandro VI, il Borgia, il quale non fece complimenti e la breve manco la mise per iscritto: la fece riferire dai Priori di Terni. Per Natale voleva un rifornimento molto sostanzioso di cacciagione e quindi che si dessero da fare ad organizzare “cacciate”. E non basta. Visto che alla fine del mese, a Ferrara, ci sarebbero stati i baccanali per il matrimonio di sua figlia Lucrezia, duchessa e governatrice di Spoleto, col duca d’Este, assegnò ai ternani il “gradito” compito di fornire polli e galline per il ricevimento.

Le tavole dei ternani non furono ricche, quindi, in quell’occasione e la festa fu in tono minore. Perché, bene o male, le festività si sono sempre celebrate con le gambe sotto il tavolino. E non è che nei secoli scorsi di feste da godersi ce ne fossero poi tante. Carnevale, Pasqua, la Madonna di Mezzagosto e il Natale. Per fortuna c’era anche la festa dei patroni e lì magari ci si sfogava inventandosi più di un santo protettore. Terni, yanto per dire, fino alla metà del XVII secolo n’ebbe tre: San Procolo, Sant’Anastasio e San Valentino.

Il Capodanno? A parte che non c’erano i “botti”, la celebrazione era al massimo di tipo religioso, la Circoncisione. Capodanno senza “botti” e Natale senza slitte, né renne, Jingle bells o Babbo Natale… I regali, pochi, si facevano semmai per l’Epifania, altra “festa festeggiata”, ma non sempre e soprattutto, casomai, non dai “signori”. Regali minimi per i bimbi: un arancio o un mandarino, i calzini di lana grossa fatti in casa, una “pipetta” con la cannula di sambuco e ricavata da una ghianda.

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La macellazione del maiale

L’Epifania, tra la gente contadina, era occasione di festa perché in molti concludevano o iniziavano in quel giorno la macellazione del maiale, operazione che andava compiuta principalmente tra la fine dell’anno e i primi giorni del successivo. Il maiale, quello “vero”, che più era pesante più costituiva motivo d’orgoglio per la famiglia che l’aveva allevato. “Due dita di lardo sotto la cotica”, era il commento che più dava soddisfazione. Il lardo, il grasso di maiale, condimenti invernali, che aiutavano ad affrontare meglio il lavoro nei campi nei mesi gelidi.

Con alcuni riti legati alla necessità. Il maiale andava prima scannato, il sangue raccolto per il “sanguinaccio”; il grasso interno, “l’assogna”, usato per gli sfrizzoli (cotti in padella “cacciavano” lo strutto, altro condimento “sostanzioso”). Una parte era usata subito però. Era quella con qualche venatura di magro. Fatta friggere nel suo lardo serviva per condire, le fave secche bollite per ore: le fave con la “padellaccia”. Era questa la colazione, o il pranzo del giorno dell’ammazzamento de “lu porcu”. A seguire i fegatelli: il fegato fresco tagliato a pezzi e condito con vari aromi e spezie e quindi cotto al girarrosto.

Il maiale veniva macellato qualche giorno dopo. Il norcino, lo scalco, modellava prosciutti e capocolli, bistecche e costarelle… E le coste più grosse erano mangiate arrostite lì per lì, salate abbondantemente. In campagna spesso il pasto del giorno di Natale coincideva con una di queste due occasioni. Sennò c’era il brodo di cappone coi cappelletti, che sembrano tortellini più grossi, ma sono fatti tagliando col bordo del bicchiere la pasta sfoglia. Dentro la carne. Immancabile, tra gli arrosti, il piccione molto apprezzato dalla cucina umbra e soprattutto Ternano. Piccioni arrosto, le cui interiora erano macinate, amalgamate con un’acciuga e i capperi per fare i crostini (spesso il pane era prima fritto nell’uovo) per l’antipasto. L’acciuga era un pasto prelibato. Il pesce, d’altra parte, tra la popolazione povera era quasi sempre quello conservato: sardine in scatola, acciughe, baccalà. Nel 1946, anno difficile, la Società Siri potè sbandierare che per quel Natale i dipendenti e solo i dipendenti potevano comprare una scatola di sardine a 35 lire e 50. Che non erano poche, ma non si specifica quanto grande era la scatola né quanto costava al mercato. Il baccalà, per parte sua, era utilizzato anche come dolce: bollito in casseruola con prugne e fichi secchi, una passerina, pinoli e cucchiaiate di zucchero.

Il dolce, però, è ormai da qualche secolo il panpepato ternano: noci, nocciole, pinoli, canditi, cioccolato, mosto cotto, spezie… E tra queste principalmente pepe. Un boccone di panpepato ed un sorso di vino, o, per sentire più forte la potenza del pepe, un bicchierino di anisetta fatta in casa. Anche il panpepato pare fosse un dolce per la gente più povera. Alla mensa dei “signori” non figurava spesso.

Il conte Carlo Graziani

Per loro, innanzitutto va specificato che la festa vera non era quella del giorno di Natale, ma la sera del 24, la Vigilia. La festa, ovviamente, era il cenone. A farla da padrone, sulla tavola dei ricchi, era il pesce quello vero, non quello sottosale o sottolio.

Questo fu il cenone a casa Graziani, la vigilia di Natale 1829. Carlo Graziani, così scriveva nei suoi “Diari”, resi noti da Gisa Giani e ripresi in un libro curato da Franco Maroni, edito dalla Thyrus (“Appunti per una storia della cucina ternana e… Diari di Carlo Graziani Gentiluomo e Scalco dell’800”, 1999).

“Gli invitati furono 16: Silvia, il cav. Manassei, Caraciotti, Severini, Felice Setacci, Conte Manassei, don Egidio Paradisi, il maestro di cappella Cardelli, mia madre, Mazzitelli, il conte Luigi Fabrizi, Io, Gigi, Amatino, Monti Giovacchino, M.Cittadini”. Il menù: “Detti 2 minestre, 1 di pane e riso, l’altra zuppa di erba; 8 salumi in piattini cioè 2 alici, 2 tonnina, 2 salmone, 2 anguilla carpionata, lesso, in Gabarè d’argento e nel mezzo, con una regina di libre 7 e mezzo e dei ben piccoli merluzzi di mare in torno (si osservi che la regina fù poca), Fritto di mele, selleri e carciofi, 2 umidi di pescetti di mare, 2 zuppe di tartufi; questi quattro piatti agli angoli di qua e di là, Crocanti frutta nel turbante lungo, nall’insalatiera 2 caponi di galanera e rosto d’anguilla. Presi 3 anguille di libre 10 e mezza ma ne avanzò. Seconda portata nel mezzo un bignè di mia moglie accomodato ad albero con frutti, sopra una sottocoppa con frutti come caduti dall’albero, 4 piattini di ossi di morti e 4 di pinochiati, nelle fruttiere mele 2, pere 2, uva 2 e negli otto angoli 2 mandorle, 2 fichi, 2 selleri, 2 gobbi”.

Altro che panpepato!

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La vallata di Papigno, sulla destra Villa Graziani
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