La contessa Canali assassinata per pochi soldi

Il Palazzo della nobile famiglia Canali al centro di Terni
Il Palazzo della nobile famiglia Canali al centro di Terni

L’assassino agì con ferocia. Una coltellata alla gola della vecchia contessa. Erano le tre di notte, una notte afosa di fine luglio del 1890, quando in via Angeloni, al centro di Terni, risuonarono le grida di una donna che, sporgendosi da una finestra, chiedeva aiuto: «I ladri! I ladri! Aiutateci».Un giovanotto che si trovava a passare ristette, dubbioso. Chissà
quanti erano i banditi in quella casa? Non se la sentì di correre il rischio di andar là da solo. Ma dopo poco arrivarono le guardie di servizio alla barriera Valnerina, la porta est di Terni, distante un paio di centinaia di metri da via Angeloni. Le grida, in una città quasi deserta e silenziosa, le udirono anche loro. Entrarono nella casa e trovarono Rosa, la domestica, in preda al terrore: gli occhi sbarrati, le mani in faccia. Nella camera da letto, una donna a terra: era la contessa Elena Canali, 75 anni. La gola squarciata. Sul corpo i segni di altre coltellate. Sangue dappertutto. I mobili rovesciati, i cassetti aperti. I ladri avevano portato via un servizio di posate d’argento, poco denaro, e qualche gioiello. La contessa Canali non aveva più le disponibilità economiche di un tempo. La sua era una famiglia molto antica, vantava antenati illustri, come Ludovico Canali che oltre al contado di Amelia ebbe quello di Altavilla; a Terni era stata proprietaria di un bel palazzo nel centro cittadino, palazzo Canali, poi diventato Pressio Colonnese. Ma a dieci anni dalla fine dell’800 la ricchezza della famiglia era in gran parte svanita. Alla contessa rimaneva, praticamente, solo quella grande casa tra via Angeloni, via delle Portelle e l’antica chiesa di San Cristoforo; un grande giardino in fondo al quale si trovava la dependance dove abitava Rosa, domestica-governante.
Elena Canali, da molti anni vedova, viveva sola. Aveva una figlia sposata con un capitano di artiglieria e non se l’era sentita di seguirli nelle loro peregrinazioni da una guarnigione all’altra. Il furto aveva fruttato ben poco, quindi. Tanto più che una parte dei gioielli, quelli che la contessa indossava ogni giorno, rimasero sul comodino dove lei li aveva poggiati prima di coricarsi. Ladri disattenti? O disturbati da qualcuno? Il racconto di Rosa non lasciava dubbi: lei era accorsa avendo sentito rumore di mobili che venivano spostati e sbattuti per terra; sulla porta della camera s’era trovato di fronte un uomo che le aveva tappato la bocca con una mano mentre con l’altra le puntava il coltello alla gola: «Taci o ti sgozzo», la minacciò. Mentre riferiva tali circostanze agli inquirenti, al solo ricordo della brutta avventura, Rosa fu presa nuovamente dal terrore: si bloccò, roteò gli occhi verso l’alto e crollò svenuta. Si riprese solo alcune ore dopo, verso mezzogiorno. «Era un uomo con la barba grigia ed un cappello di paglia», aveva fatto in tempo a riferire prima di perdere conoscenza.
Ci andò così di mezzo un povero diavolo che rispondeva alla sommaria descrizione. Fu arrestato poche ore dopo ai giardini pubblici della Passeggiata. Era uno scalpellino disoccupato, originario di Fossombrone, con precedenti per furto. Di lui si disse che era stato amante di una domestica della contessa, licenziata prima che fosse assunta Rosa, quindi conosceva casa Canali. Quando due questurini lo fermarono cominciò a balbettare e non seppe spiccicare una parola compiuta. Ovvio che finisse in gattabuia, ma poi si scoprì che non c’entrava proprio niente.
Più “delicata” si rivelò la posizione di un giovanotto che durante la giornata s’era presentato più volte a casa Canali per chiedere notizie di Rosa. Gli agenti si insospettirono. Fu identificato: si trattava di Romolo Crociani, pompiere, un passato irreprensibile. Era l’amante di Rosa. Durante una perquisizione a casa sua fu trovato tutto quel che era stato rubato. Immediate le manette.
Una notte insonne nel carcere di via Carrara e Romolo confessò, coinvolgendo l’amante: era stata lei ad istigarlo perché uccidesse la contessa, riferì. Rosa, però, negò. Mai ammise colpe; continuò a professarsi innocente e ad accusare Romolo di aver fatto tutto da solo. Non le credettero.  La Corte di Assise di Spoleto i quali condannarono per omicidio sia lei che l’amante.

 

 

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