Leoni, campione del ciclismo reatino in realtà era umbro

Adolfo Leoni

«Grazie a tutti voi e soprattutto a te, Cottur, che mi hai fatto vincere». Poche parole, pronunciate con lo scarso fiato rimasto nei polmoni dopo una volata lunghissima, potente, vittoriosa. Adolfo Leoni, vent’anni, era campione del mondo dei dilettanti di ciclismo. Cominciava da lì una fulgida carriera che lo portò in una quindicina di anni a vestire la maglia di campione d’Italia dei professionisti; a vincere numerose classiche, tra cui la Milano–Sanremo, la corsa regina; a far sue 17 tappe del Giro, due del Tour.

Per tutti i tifosi dello sport del pedale l’equazione era scontata: ciclismo, Leoni, Rieti. Con Leoni era anche Rieti a salire sugli scudi, ad essere nota ai tifosi che allora si contavano a milioni. Erano gli anni di Bartali e Coppi, del ciclismo eroico e sport di grande popolarità cui i giornali, anche quelli non sportivi, dedicavano pagine intere ed un’attenzione speciale. Leoni, in verità, per nascita era umbro, di Gualdo Tadino dove vide la luce il 13 gennaio del 1917. Il padre era ferroviere. A Rieti fu trasferito che Adolfo aveva da poco cominciato a parlare ed a camminare. E a Rieti è cresciuto, s’è formato, ha vissuto fin quando non s’è sposato, nell’ottobre del 1947. A Rieti divenne corridore, partecipando ad una gara riservata ai ferrovieri, ma soprattutto ai loro figli, visto che potevano partecipare coloro che avevano tra i 15 ed i 22 anni. Adolfo,di anni ne aveva 14, ma riuscì ad essere al via. Cominciò dalle gare invece che dagli allenamenti. La classe c’era, innata. Vinse dominando la corsa. Ed al talento si aggiunse una passione sfrenata. A 17 anni la prima licenza di corridore dilettante. A venti, subito prima del campionato mondiale che si corse a Copenaghen, ci fu per lui una vittoria altisonante: a Monthlery al Gran Premio delle Nazioni che vedeva al via il fior fiore del ciclismo dilettantistico mondiale.

La volata vittoriosa di Leoni al campionato mondiale dilettanti

Era logico che a Copenaghen fosse uno dei sorvegliati speciali. E quando con uno scatto perentorio, in uno degli ultimi giri, lasciò il gruppo per portarsi su sei corridori in fuga, in nove si lanciarono appresso a lui incollandosi alla sua ruota. Raggiunsero i fuggitivi. Sul rettilineo finale si presentò un gruppo numeroso. L’italiano Cottur aveva il compito di aprire la strada ai suoi connazionali più veloci. Partì da lontano. L’arrivo era ancora distante quando, esausto, si rialzò. Leoni, sprinter dotato fisicamente, ma anche fine calcolatore e sagace lettore di situazioni istantanee, si buttò a capofitto, piegando le pedivelle sotto la potenza dei suoi polpacci. Una lunga apnea e la capacità di resistere alla rimonta del danese Sorensen che fu battuto di mezza bicicletta.
Dopo una vittoria così non poteva che diventare professionista in una squadra importante: la Bianchi. Non c’era Coppi, ovviamente: capitani erano Bini e Olmo. Coppi esordì con la maglia della Legnano, e diventò un Bianchi solo dal 1945. Leoni c’era ancora e fu compagno di squadra del campionissimo dopo esserlo stato di Magni. Era lui, il “bell’Adolfo”, come lo chiamavano, il velocista della squadra. Poi nel 1948 passò alla Legnano, con Bartali. Vi restò fino a quando, al termine della stagione 1951, appese la bicicletta al chiodo.
Una scelta di vita, quella di cambiare squadra. Ma probabilmente pure “di portafogli”, anche se uno come Adolfo Leoni non aveva, certo, problemi finanziari. Sì, se da poco aveva messo su famiglia, ma s’era sposato con Maria Luisa Cioni, famosa soprano che calcava i palcoscenici di tutta Europa.
Lei il canto, lui la bicicletta. Entrambi con successo. Nel 1948 Leoni vinse la Sassari–Cagliari e due tappe al giro d’Italia. Ma l’anno “boom” fu il 1949, l’anno della leggendaria Cuneo–Pinerolo, quando Coppi sfoderò un’impresa delle sue conquistando la maglia rosa nella tappa più dura del giro. La strappò proprio a Leoni, quell’insegna del primato, che la vestiva da otto giorni. Tanto tempo in vetta alla classifica, ed in più tre vittorie di tappa e la quarta posizione finale, dietro Coppi, Bartali e Cottur: per soli 34 secondi mancò di salire sul podio. Un bilancio di tutto rispetto, per un velocista, in una corsa a tappe.
Dopo il matrimonio Adolfo Leoni s’era trasferito a Milano e da qui era partito, insieme al fratello, la mattina del 19 ottobre del 1970 per recarsi a Massa Carrara. Per una visita dal cardiologo Azzolina. Era in sala di aspetto quando quel cuore che lo aveva così egregiamente sostenuto durante le tante battaglie in bicicletta, lo tradì. In un attimo. Il soccorso, seppur immediato, fu inutile.

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