Massa Martana, frati contro i Savoia: “Siete prepotenti”

Santa Maria della Pace a Massa Martana. A destra: la lapide della "vendetta"
Santa Maria della Pace a Massa Martana. A destra: la lapide della “vendetta”

Era il 1863 quando fu abolito il convento francescano di Santa Maria della Pace a Massa Martana. Avvenne in attuazione dei decreti del regio commissario Gioacchino Pepoli, che aboliva in Umbria “tutte le corporazioni e gli stabilimenti di qualsivoglia genere degli ordini monastici e delle corporazioni regolari o secolari, eccettuati il Fatebenefratelli di Perugia e i padri Scolopi di Narni, Città della Pieve e Castelnuovo”. Il salvataggio di queste due congregazioni trovava ragione di essere per la riconosciuta particolare utilità dell’opera da esse svolta:  i Fatebenefratelli assistevano gli infermi dell’ospedale per malati di mente, mentre gli Scolopi s’occupavano dell’istruzione dei bimbi poveri.
Gioacchino Pepoli, bolognese, nipote per parte di madre di Gioacchino Murat e di Napoleone Bonaparte (il secondo nome di Pepoli era proprio Napoleone), fu un insurrezionalista molto attivo contro il potere temporale del papa.
In Umbria, dove divenne commissario regio nel 1860, prese diversi provvedimenti contro i chierici e la Chiesa. Non faceva che seguire le direttive del nuovo regno d’Italia che era in duro conflitto proprio col papato e che aveva avviato la politica della confisca dei beni della Chiesa.
Fattostà che il convento di Santa Maria della Pace di Massa Martana dovette essere abbandonato dai Francescani che lì erano dall’inizio del ‘600. Nel tempo esso aveva assunto una sempre maggiore importanza, dato che era stato dichiarato convento di studio, insieme a quelli di Assisi e dei Santi Cosma e Damiano a Roma. Al momento della soppressione era anche casa di noviziato.
Certo, non intonarono canti di gioia i frati francescani costretti ad andarsene e covarono non poco risentimento nei confronti dello stato italiano. Dovettero aspettare una quarantina di anni, ma una soddisfazione se la cavarono. Nel 1926 il convento fu loro restituito e nel riprenderne possesso vollero togliersi almeno lo sfizio di spubblicare il regno d’Italia per il torto a loro parere subito. Lo fecero mediante una lapide, apposta su una parete laterale della chiesa attigua al convento e che sorge dirimpetto al cimitero di Massa Martana. Nella lapide, che in latino, si ricorda come nell’anno V dell’era fascista (1926, appunto) il convento fu riconsegnato ai terziari francescani, dopo essere stato chiuso “sub aequiore Italiae regimine”.  Una vendetta sottile, compiuta con un’espressione nemmeno tanto velatamente polemica. Merito anche della lingua latina mediante l quale è possibile esprimere con una parola un concetto ben più complesso.  Quel “sub aequiore” la dice lunga. In pratica si accusa il regno d’Italia di aver disatteso il principio secondo cui stato e chiesa avrebbero dovuto essere due poteri equilibrati, uguali. Ma lo stato sabaudo s’era considerato “più uguale” della Chiesa e da posizione dominante aveva deciso di cacciare i francescani. Una prepotenza bella e buona, insomma.
La lapide ricorda comunque che la riconsegna del convento e quindi il ritorno dei frati francescani avvenne grazie all’impegno principale di tre personaggi: il vescovo di Todi, Aloisio Zaffarami, il podestà di Massa Martana, cavalier Antonio Orsini Federici, e l’arciprete Ilario Alcini, parroco del luogo.
Nel 1933 Santa Maria della Pace tornò anche ad essere sede del noviziato. Dopo la seconda guerra mondiale, nel 1946, divenne seminario serafico e al giorno d’oggi è casa di accoglienza per convegni e ritiri.

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