Mauro, internato nei campi nazisti nei guai per colpa di una vacca

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di LORENZO MANNI

Il reparto “carpenteria” delle acciaierie fu chiuso pochi mesi dopo che, nel 1970, ero stato assunto all’ufficio tecnico della “Terni”. La “carpenteria” era un fiore all’occhiello dell’acciaieria: progettava, realizzava e montava opere che, nei decenni, avevano contribuito significativamente allo sviluppo dell’Italia uscita disastrata dalla guerra: ponti ferroviari, centrali idrauliche, gru a braccio retrattile (per il porto di Genova, ad esempio), condotte forzate, carroponte, etc.

Erano le realizzazioni che rendevano grande e famoso il nome “Terni”, molto tempo prima che la fabbrica diventasse monoproduttrice.  A Gerardo Siano, l’ingegnere che aveva la responsabilità dell’ufficio tecnico della caldareria, fu affidato il reparto “impianti” che doveva sviluppare i progetti e portare alla realizzazione gli investimenti di quegli anni. Investimenti importanti per la fabbrica: due nuovi forni fusori , una colata continua billette, una colata continua bramme, oltre naturalmente ai capannoni dedicati. Andarono in rottamazione i carroponte a carrozzella che alimentavano principalmente con rottame il forno Martin 11, l’unico rimasto con quella tecnologia. I carroponte a carrozzella furono sostituiti da un carro passacampata e la prospettiva della “Terni”, sotto la protezione statale, si fece sempre più rosea.

Questo era il periodo. Essendo io da poco entrato all’acciaieria, giovane ed inesperto, l’ingegner Siano mi consegnò ad un tutor: Mauro. La formazione professionale di un giovane allora avveniva così. Ed era molto efficace. Nasceva da un rapporto interpersonale, vivo. L’esperienza di Mauro, anziano progettista molto scrupoloso, era  una ricchezza della fabbrica che non andava perduta. Nel mio caso, Mauro si dimostrò un validissimo maestro, anche di vita. Era un uomo paziente, mite. Non reclamava mai, non faceva ” comunella” con i suoi colleghi anziani e spesso si chiudeva in lunghi silenzi.

Nel “Giorno della Memoria” non posso non rivolgere un pensiero a Mauro.

Mauro che, l’8 Settembre del 1943, era un giovane allievo ufficiale in servizio in una caserma di Bolzano. Quella sera gli dettero l’incarico di custodire la caserma come ufficiale di picchetto, ma siccome non aveva ancora fatto il “giuramento” non gli avevano assegnato la rivoltella Beretta che era in dotazione agli ufficiali. Praticamente era di picchetto, con la fascia azzurra, sì, ma disarmato. Nella fondina sistemata alla cintura non c’era niente. Quella notte, molti si dettero alla fuga lasciando la caserma, ma lui no, aveva il grande compito di custodirla anzi, e con essa la Santa Barbara, le armi… insomma tutti i compiti di un ufficiale di picchetto.

Essendo vicina al confine la caserma fu subito occupata dai soldati tedeschi che non trovarono alcuna resistenza.

Qualcuno sperò che i guai, con l’armistizio, fossero finiti, ma invece fu proprio allora che cominciarono. Come spiegare ad un soldato tedesco che il “custode” di una caserma importante, ai confini ed in pieno conflitto bellico non avesse in dotazione almeno una pistola? Lo ” ingabbiarono”  subito e lo trasportarono con un  vagone piombato verso il campo di concentramento, in  Sassonia. Si ritrovò compagno di stanza di Giovanni Guareschi (che ha raccontato quelle vicende nel suo “Diario Clandestino”). Mauro e Guareschi condivisero la convinzione di non collaborare con i nazisti.

Raccontava Mauro che a mangiare davano zuppa di carote senza pane e che rimaneva, lui come gli altri, per intere giornate immobile sul tavolaccio per non consumare calorie. Ben presto fu assegnato ad una fattoria per svolgere lavori agricoli, prevalentemente riguardanti la pulizia e la custodia delle stalle, insieme a detenuti polacchi.

Un episodio raccontava, nei pochi momenti che si rendeva disponibile, che lo aveva preoccupato non poco. La custodia degli animali (una quindicina) era assegnata a tre internati: lui, Mauro, e due polacchi, un uomo ed una donna. Dovevano provvedere anche al pascolo. Un giorno, mentre erano a pascolare, i due polacchi si appartarono lasciandolo solo a badare agli animali. Quando più tardi li radunarono per ricondurli alla fattoria, si accorsero che una vacca mancava all’appello. Stava facendosi sera. Il tempo per rimediare era poco. Decisero, per prima cosa, di riportare nella stalla tutte le vacche radunate. Poi uscirono di nuovo per ricercare la “fuggiasca” evitando di riferire ai proprietari della fattoria quel che era accaduto. Il pericolo – anzi la certezza – per loro, era di essere denunciati alle autorità locali e di subire un processo sommario che si sarebbe concluso con la fucilazione.

Fu una notte di affanno, vissuta col cuore in gola. Per ore la cercarono quella vacca. Tanta costanza nata dalla disperazione, fu premiata. Al mattino riuscirono a riportare a casa la vacca mancante, salvando la propria pelle.

Ritornò a casa un paio di anni dopo la fine della guerra. Era malridotto, ma essendo giovane, superò, seppure  con difficoltà, le malattie causate dalla malnutrizione. Ebbe la fortuna comunque di raccontare , seppure senza entusiasmo, questa sua vicenda. Ed un giorno appagò la mia curiosità un giorno facendomi fece vedere un album di disegni da Guareschi, che rappresentavano scene di vita e volti degli internati

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