Era il momento in cui cambiava il turno; i minatori che finivano di lavorare alle 6 del 22 marzo 1955, s’erano avviati verso l’ascensore che stava scendendo con i loro compagni che avrebbero dovuto prender servizio dopo di loro, lì, al Pozzo Orlando, il pozzo principale delle miniere di lignite della “Terni”, a Morgnano, a pochi chilometri da Spoleto.
Fu in quel momento che avvenne la tragedia nelle viscere della terra, a più di trecento metri di profondità: il grisou, il gas che è sempre stato il terrore dei minatori. Un nemico subdolo, quel gas inodore e incolore presente nelle miniere di carbone o, nel caso di Morgnano, di lignite. Resta in sacche del terreno, ed è innocuo se resta imprigionato tra le rocce. Ma appena entra in contatto con l’aria, divampa all’improvviso, con violenza.
E quella mattina la vampata fu talmente esagerata che si trasformò in un boato e in tremore della terra. Al villaggio, poco lontano dalla miniera, dove abitavano le famiglie degli operai, nessuno senti niente. L‘incidente era avvenuto a grande profondità. Solo un ragazzo si accorse che la lampada del soffitto tremò, ma sembrava una lieve scossa di terremoto.
Invece era una tragedia. Da là sotto qualcuno riuscì a usare la linea telefonica direttamente collegata con la direzione, e a dare l’allarme. Le squadre di emergenza entrarono immediatamente in azione, ma non era facile scendere giù.
La notizia si diffuse in un battibaleno. Le mogli, i figli degli operai accorseo, con la disperazione nel cuore. Ma ovviamente si impedì loro di avvicinarsi, di compiere gesti disperati ed inconsulti per portar soccorso ai loro cari. Quattro ore col cuore in gola, fino alle 10, quando il rimo degli operai morti fu portato in superficie. Della tragedia avvenuta, almeno nelle sue dimensioni, si era saputo. Tanti minatori erano deceduti, altri erano feriti. Erano in quaranta là sotto. 22 di loro morirono subito. Gli altri furono ricoverati in ospedale, ma due tra questi erano in condizioni disperate e resistettero solo qualche ora.