Nubifragio estivo, sette morti in Umbria

1 settembre 1965

Sette morti, tre dispersi una ventina di feriti, campagne allagate, la ferrovia Firenze-Roma e l’autostrada del Sole interrotta a causa di frane e allagamenti, danni per miliardi di lire. Era un primo, impressionante bilancio di un inferno scatenatosi all’improvviso in Umbria quello stilato la sera del 1. settembre 1965, più di cinquant’anni fa. Morti e dispersi. Quando tutto finì e, dopo una decina di giorni, si tornò alla quasi normalità, in tutta Italia si contarono una trentina di vittime giacché il nubifragio

Autosole
Un nubifragio estivo innesca una tragedia a Fabro

non risparmiò nessuna parte della penisola, da Padova e Rovigo fino a Trapani. Ma il primo giorno fu l’Umbria al centro di quel ciclone estivo. E sull’Autostrada del Sole, nei pressi del casello di Fabro, fu una vera tragedia quel che avvenne. L’Autosole era entrata in servizio da pochissimo, era un’opera modernissima, eppure non era protetta a sufficienza.
La bomba d’acqua arrivò dal torrente Argento, trascinando con sé tutto ciò che aveva travolto a monte: detriti di ogni genere, carcasse di animali, relitti di carri e attrezzi agricoli. Tutto si riversò, all’improvviso, sull’Autostrada, travolgendo una ventina di vetture in transito. «Ne ho viste scomparire quattro o cinque in un gorgo vicino l’argine» raccontò ai cronisti appena arrivati un contadino che abitava poco lontano. «La sciagura è stata causata dalla rottura di un argine di terra che frenava le acque del torrente Argento», specificò in un comunicato ufficiale la Società Autostrade.
Per dare l’allarme fu necessario aspettare che un giovanotto riuscisse ad arrivare a Chiusi: a Fabro i telefoni non funzionavano. Passò un’ora prima che i soccorsi potessero scattare. I vigili del fuoco intervennero con canotti e sommozzatori mentre l’Autosole fu chiusa da Roma a Incisa Valdarno, un tratto di 250 chilometri.
Quando fece buio e si sospese l’opera di soccorso, erano stati recuperati i corpi di tre uomini e due donne. Ma mancavano all’appello almeno tre persone: il guidatore di una “1100” che era stato visto cercare di abbandonare la vettura finendo risucchiato dalla corrente; una bambina di cinque anni e sua madre. Il padre aveva fermato l’auto sotto il ponte di un viadotto ed era sceso per chiedere aiuto. Disperato, cercava di convincersi che moglie e figlioletta fossero in un qualche cascinale della zona, al sicuro; ma c’era chi aveva visto trascinare via la vettura dall’acqua e dal fango e non aveva il coraggio di dirglielo. L’auto, targata Savona, non era tra quelle recuperate: tre “1500” con targa Roma, una “1100” di Milano, più altre due vetture di Lecce e Caserta.
Orvieto era isolata, la pianura tutta intorno alla rupe era un lago, le cabine elettriche erano saltate e la città era al buio; migliaia di ettari di campi coltivati erano stati distrutti, la centrale di Pietrafitta invasa dalle acque. A Orvieto Scalo un bambino di cinque anni annegò nella piena.
Crebbe l’indignazione, si rilevava la mancanza di norme di tutela del territorio e di prevenzione. Il prezzo pagato fu pesante prima di tutto per le vite umane cui si aggiungevano i danni materiali che, in Umbria, furono calcolati in almeno dieci miliardi di lire (valore di allora). «Per risparmiare tre miliardi, ora dobbiamo pagarne dieci di danni», scrivevano i giornali sulle pagine umbre. Erano i tre miliardi che sarebbero stati necessari per attuare un piano di regimentazione delle acque che riguardava l’intera regione e che era rimasto in un cassetto.

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