Reichlin, la storia italiana e del Pci ripensata da Collicello

di ALFREDO REICHLIN∗

Da Collicello si vede tutta la conca che va da Narni a Terni. Sullo sfondo il Terminillo e più a ridosso le dolci colline che portano a Sangemini. La torre di questo vecchio borgo fortificato (ormai parte della casa di Giuliano Procacci) era una prima difesa della guelfa Amelia ed è costruita in modo da fronteggiare Forte Cesare e Castel dell’Aquila, avamposti della ghibellina Todi. Se salgo in cima ad essa riesco a vedere Acquasparta e tra le sue case il palazzo rinascimentale dove Federico Cesi fondò insieme a Galileo Galilei l’accademia dei Lincei. Ma Amelia non si vede. È coperta da una serie di costoni (la “macchia”, la chiamano i colcellesi), e in mezzo a questi, in alto, c’è la mia casa. Una casa quadrata tutta di pietra costruita quasi due secoli fa sulla roccia viva da una famiglia di contadini-pastori, e che è circondata da un bosco di querce e lecci che si estende per chilometri: praticamente senza interruzioni, dal ciglio della vallata del Tevere che forma il lago di Corbara alla vecchia strada interna che unisce Amelia e Orvieto. Gli abitanti di Collicello non arrivano a duecento e qui, durante la guerra, visse nascosto Piero Calamandrei.

Collicello la Torre
Collicello, la torre

Sono arrivato a Collicello quasi 30 anni fa in una giornata particolare. Era il giugno del 1976 subito dopo quel voto in cui il Pci arrivò al 34 per cento. Venivo dalla Puglia e la sera prima parlavo nella piazza di Taranto travolto da una marea di popolo che sembrava un fiume in piena. Mancavo da casa da settimane e non sapevo che mia moglie, vecchia amica di Procacci, aveva affittato qui la casa di campagna di don Domenico, il parroco, come luogo di riposo. 30 mila lire all’anno: senza luce e con l’acqua che si tirava dalla cisterna con una pompa a mano. L’euforia della vittoria, la stanchezza della notte passata in treno, la luce di giugno sui verdi colli amerini, la semplice bellezza di questo luogo: tutto mi rendeva felice e resta nel profondo di me il sapore, l’aria, l’odore di quella giornata. Questa fu la mia scoperta dell’Umbria. Il giorno dopo, verso sera, andai ad Amelia per cercare i compagni. La sezione era vuota. Stavano tutti in una sala da banchetti fuori le mura a fare festa. Mi unii a loro e mangiai il pranzo buono e semplice che qui non cambia mai: crostini, “ciriole” al sugo, misto di carni arrostite: pollo, piccione, salsiccia, lombello. Da questo luogo (ma non solo: l’ho anche girata molto l’Umbria e ho partecipato alle sue vicende) ho visto come questa regione sia cambiata nell’arco di un secolo. Penso alle persone. La cosa che più mi colpiva era la differenza con il mondo popolare pugliese in mezzo al quale ero vissuto. Lì tra la massa dei braccianti e dei contadini senza terra emergeva ogni tanto una figura di capo popolo alla Di Vittorio, animato da una grande energia anche fisica, e forte di una sapienza antica e di una intelligenza naturale. Ma la società era molto drammatica, intrisa com’era di violenza, la crudele violenza di quella povertà estrema per cui il bracciante “va a giornata” e non conosce nemmeno la dignità del salario. E una società profondamente lacerata al punto che fino ai primi anni ’60 il segno non era dato dal ceto medio, ancora troppo debole, ma dai proprietari e dai così detti “mille mestieri” (l’essere volta a volta bracciante e muratore, manovale, uomo di fatica). Due mondi tra loro incomunicabili, quasi due razze nemiche.

La cosa che più mi colpì dell’Umbria era proprio questa differenza. Qui sembravano tutti uguali. Esagero.Ma il fatto reale era un mondo del lavoro dove il passaggio tra l’essere alle dipendenze di un padrone e il lavorare in proprio, insomma l’intraprendere, era normale; dove lo scambio dei ruoli e la disponibilità a cooperare era la regola. Osservavo la famiglia dei miei vicini. Il padre contadino, dirigeva non una famiglia ma una impresa. Un figlio andava a Narni in fabbrica, un altro faceva il falegname e aveva la bottega accanto, una figlia gestiva il negozietto universale del borgo, il più piccolo sorvegliava le pecore, la madre si occupava dell’orto e faceva i formaggi. La grande casa contadina era anche un’officina. Lì si poteva fare tutto, dalla mungitura delle vacche alla riparazione dei motori, dalla costruzione di una stalla, al lavorare il ferro e i mobili. In mancanza di qualche competenza (la piastrellatura o la riparazione di un televisore) c’era lo scambio di lavoro con uno zio o un vicino.

Questo mi colpiva dell’Umbria: una società che tendeva ad includere. Una rete di relazioni cooperative e quindi una struttura sociale se non egualitaria certo senza grandi contrasti drammatici. Soprattutto una cultura del fare, la cui base stava nell’antica esperienza degli artigiani e della mezzadria. Una forte etica del lavoro.

Di qui una grande domanda. Che cosa aveva esaltato queste risorse e messo in moto la gente fino a trasformare tante piccole comunità in un popolo? Non erano poi passati tanti anni dal tempo in cui l’Umbria era una delle regioni più povere d’Italia. Senza industria, con una agricoltura in gran parte per l’autoconsumo, quasi isolata. Terni distrutta dai bombardamenti. Il racconto che mi faceva il vecchio Treppini: noi in queste zone vivevamo essenzialmente allevando le pecore, col taglio dei boschi e facendo la carbonella; andavamo a lavorare fino ai monti del reatino dormendo per settimane nelle capanne dei boscaioli. Per disinfettare le ferite ci pisciavamo sopra. Adesso siamo diventati ricchi. E il Comune – questa era per lui la cosa più curiosa – porta ogni anno gli anziani come me in vacanza a Rimini, a settembre, quando gli alberghi sono vuoti. E il parroco è preoccupato e risponde organizzando un viaggio a Lourdes in pullman. Dove stava la spiegazione di questo autentico miracolo? Mi pare chiaro che stava in quella straordinaria rivoluzione democratica di cui il Pci fu l’attore principale. Bisogna leggere certe memorie di quegli anni (il libro di Lello Rossi ma anche i racconti sulla ricostruzione di Terni) per capire che tipo di mobilitazione politica fu avviata e come questa abbia coinvolto la società nel profondo dando alla gente quel senso di sé e dei propri diritti, quella fiducia nel futuro, quella certezza che i governati possono fidarsi dei governanti perché la legge è uguale per tutti e alla loro testa c’è chi lotta e si sacrifica per un ideale e governa in nome dell’interesse comune.

Non scopro niente. Ma lo sottolineo perché è questo clima che io respiravo 25 anni fa tra Amelia, Acquasparta e Collicello. Dominava ancora sulla vita regionale la fantasia e l’intelligenza politica dei Galli, dei Rossi, dei Rasimelli, dei Conti, dei Marri, cioè degli inventori di un modello originale di sviluppo.

Pietro Conti Reichlin Collicello
Pietro Conti, primo presidente della Regione Umbria

Parlo di quel gruppo (mi scuso con quelli che non cito) che fecero del Pci il partito più moderno e dei comunisti i migliori governanti. Penso che così si è costruita quella rete civile (quel “capitale sociale” si direbbe oggi) che ha fatto da supporto al miracolo economico. E i costruttori sono stati tanti. Non penso solo ai dirigenti ma ai segretari delle sezioni, a quello stuolo di “sergenti” che avevano una cultura politica magari semplicema strutturata e fortemente intrisa di senso delle responsabilità verso gli altri. Essi avevano delle certezze. Sapevano cosa bisognava fare e perché bisognava farlo. Leggevano l’Unità e alcuni libri essenziali. Ed era un piacere parlare con loro la domenica mattina al bar dopo aver comprato i giornali. Non per caso Pietro Monzi era per me non solo un amico ma un consigliere:  aveva più buon senso.

Che cosa è rimasto di tutto questo? Mi sembra un interrogativo essenziale al quale bisognerebbe rispondere se vogliamo guardare al futuro. Io non rimpiango il passato. Dopo quella conversazione con Treppini sono successe tante cose, anche positive. L’Umbria si è ulteriormente trasformata. Si è industrializzata a macchia d’olio, è entrata nell’era dei servizi moderni. E io ho visto quando a Collicello tutti, senza eccezioni, si sono fatti mettere il telefono e poi il congelatore e poi il telefonino e poi sempre più auto hanno ingombrato la piazzetta. Ho visto la crescita anno dopo anno delle piccole imprese. E vedo i giovani i cui gusti, modi, consumi, divertimenti sono dedotti dai modelli delle capitali del mondo. Ho visto bene anche la “corrente pesante” del fondamentalismo di mercato e dell’antipolitica arrivare fin qui e tentare la rivincita su quella rivoluzione democratica che aveva fatto l’Umbria civile e moderna. Non mi nascondo i guasti che ha creato. Ma penso che alla fin fine questa ondata si sta esaurendo e che ci sono le condizioni perché si possa tornare a pensare in grande al futuro dell’Umbria e alla creazione di nuove forme di solidarietà nella società umbra tenendo ben conto che anche questa è ormai una società di individui.

Non ho consigli da dare ai bravi dirigenti politici della sinistra umbra.Mi pongo però un problema più culturale e mi piace farlo sull’Unità che non è mai stata solo un giornale e nemmeno soltanto una bandiera. È stata e non può che continuare ad essere una “pedagogia”, e quindi, in definitiva, una cultura. È lo stesso problema che si pone Luciano Cafagna in un bel saggio che sta per uscire sulla rivista “Italiani europei”. A quella sorta di cultura stracciona del berlusconismo che ha avuto però la forza di mettere insieme tante cose – dall’egoismo sociale che c’è nel fondo della vecchia società italiana agli spiriti animali del nuovo ceto imprenditoriale, dalle paure del nuovo al rampantismo senza valori civici della piccola borghesia televisiva – noi cosa opponiamo? Solo l’indignazione dei Moretti e dei SylosLabini? Oppure qualcosa che non può non avere al suo centro, come suo nucleo essenziale, una nuova e moderna “cultura del sociale”? Da Collicello, tanti anni fa, io ebbi quella visione sull’Umbria. Domani quale panorama sociale, etico, civile si aprirà davanti agli occhi di chi salirà sulla antica torre di questo luogo?

Collicello (Amelia), aprile 2003

 

∗L'articolo, pubblicato col titolo 
"Umbria, ripensando 
la storia dal mio colle", è tratto
da L'Unità di domenica 13 aprile 2003

 

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