Gennaio 1995, le acciaierie di Terni in mano ai tedeschi

C’era la brina sull’erba ai lati della strada da Montefranco a Terni. D’altra parte era il 10 gennaio. Il 10 gennaio 1995. Enrico Micheli, direttore generale dell’Iri, a Montefranco, nella villetta appena fuori del paese natale, era arrivato la sera prima, con in tasca le chiavi delle acciaierie di Terni. Di buon’ora partì per raggiungere viale Brin, varcò la portineria dell’Ast, Acciai Speciali Terni, ed entrò nella biblioteca, un grande, austero salone. Lì, ad aspettarlo, c’erano i rappresentanti della Kai, il consorzio di imprese, i quali,l’acciaieria di Terni, l’avevano comprata. Quel giorno, un’impresa che da decenni faceva parte del sistema delle industrie pubbliche italiane, divenne privata.
La società Kai era per metà degli industriali siderurgici italiani, Giorgio Falk, Luigi Agarini ed Emilio Riva, e per metà della Krupp.
Tutto era cominciato nel 1993. Per la siderurgia europea un anno difficile: anche quello. C’era da fare i conti coi prezzi fortemente concorrenziali dell’acciaio coreano e cinese, e di quello dell’Europa dell’Est, che stavano invadendo i mercati. In Francia, Germania, Spagna e Italia la siderurgia soffriva per sovraproduzione, impianti vecchi ed antieconomici, il costo del lavoro più elevato. Era necessaria una profonda ristrutturazione, che sarebbe costata cara anche in termini di occupazione.

Acciaierie di Terni
Enrico Micheli con Romano Prodi

La Germania, alle prese con le questioni legate all’allora recente riunificazione tra Est ed Ovest, era quella che se la passava peggio. In Italia il governo presieduto da Giuliano Amato e poi da Carlo Azeglio Ciampi, intanto, seguiva l’onda di una pratica avviata da Margaret Thatcher in Gran Bretagna e poi messa in atto un po’ in tutto il mondo: la privatizzazione delle industrie di Stato. Che in Italia era tutte riunite nell’Iri.
Vendere le imprese e risanare l’Iri, decise il Governo. Affidando il compito a Romano Prodi, il quale dell’Iri era già stato presidente e che cercò inutilmente di declinare l’invito a diventarne commissario governativo. Anche perché l’impresa era ardua. L’Iri aveva un passivo di diecimila miliardi di lire, una gran parte dei quali imputabili alle perdite dell’Ilva, nata nel 1989 dopo la cancellazione della Finsider. «Qualcuno, sbagliando, pensò di ridurre tutto ciò che aveva a che fare con l’acciaio ad un unico gruppo _ spiegò anni dopo Enrico Micheli _ seguendo una logica di accentramento e nella convinzione che si potessero utilizzare le economie di scala. Ma ciò non avvenne e anche le acciaierie di Terni, che erano le più avanzate sia tecnologicamente, sia per la produzione, furono travolte da quel marasma finanziario che si realizzò nel corso degli anni Ottanta».
L’Ilva, per la verità, non era partita male: nei primi due anni di attività, aveva realizzato oltre trecento miliardi di utili nei primi due anni di attività. Ma già nel 1992 chiuse in perdita per 1.900 miliardi e debiti che sfioravano gli ottomila miliardi. Roba da dover portare i libri contabili in Tribunale. Per salvare la situazione, l’Iri avrebbe dovuto assegnare finanziamenti per quattromila miliardi, ma l’Europa non lo consentiva: niente aiuti di Stato. In caso contrario si sarebbe aperta la procedura d’infrazione che consiste non in un timbro infamante posto in fronte, ma in una serie di provvedimenti che penalizzano l’economia.
Alla guida dell’Ilva era Hayao Nakamura, un manager giapponese che viveva in Italia dove curava gli interessi della Nippon Steel. Nakamura liquidò l’Ilva smembrandola, allo scopo di privatizzare tutto quello che era possibile vendere, in tre società: l’Acciai Speciali Terni, l’Ilva Laminati Piani di Taranto, e l’Ilva in liquidazione la quale raccoglieva tutto il non vendibile. Il piano Nakamura costava dodicimila posti di lavoro, di cui circa settecento a Terni.
L’Ast fu costituita il primo gennaio 1994: aveva un capitale di quattrocento miliardi, quasi 1.200 miliardi di debiti (le fu accollata una quota di quelli dell’Ilva) e circa quattromila dipendenti. Ma aveva anche impianti tra i più efficienti; produceva acciaio inossidabile, magnetico, al carbonio, al titanio. Gli interessati all’acquisto furono subito più d’uno: i francesi della Ucinor, gli spagnoli di Acerinox, i belgi della Sidmar, gli anglosvedesi dell’Avesta-Sheffield, la British Steel, e i tedeschi della Krupp, i quali operavano tramite la società Ktr. Partner della Krupp in Ktr era la Thyssen (i due colossi non s’erano ancora fusi). Naturalmente tra i pretendenti all’acquisto non mancavano gli italiani, i soliti: da Marcegaglia a Lucchini, da Riva a Falck. E Luigi Agarini, più che altro commerciante di prodotti siderurgici, il quale intratteneva rapporti con tutti.
La contesa si restrinse a due cordate: una italo-francese della Ucinor con Lucchini e Marcegaglia; l’altra italo-tedesca, la Ktr-Far (acronimo che stava per Falck, Agarini, Riva): il consorzio Kai. Fu una fase di bagarre, ma quella mattina di gennaio del ‘95, a ricevere le chiavi da Micheli c’erano i rappresentanti di Kai: 621 miliardi sborsarono, accollandosi i debiti ed impegnandosi a fare investimenti per ottocento miliardi nel giro di quattro anni, a non effettuare dismissioni, a collaborare per un rapporto tra fabbrica e territorio che avrebbe portato sviluppo al tessuto produttivo ternano, a mantenere i livelli occupazionali. Pagamento in tre rate, 150 miliardi l’anno per i primi due anni, il resto entro il 1999. Intanto Romano Prodi aveva lasciato l’incarico all’Iri, anche perché nel frattempo le elezioni avevano decretato la nascita di un nuovo governo. Prodi aveva portato a compimento la procedura di liquidazione dell’Iri e le relative privatizzazioni, l’atto ufficiale di cessione delle acciaierie ai tedeschi portava la firma del nuovo presidente del consiglio, Silvio Berlusconi.
Fu un grosso affare, per i nuovi proprietari. Già nel 1994, l’Ast “di Stato” aveva registrato un utile di trenta miliardi. Nel 1995 le cose andarono ancora meglio: 150 miliardi di utili, coi quali Kai pareggiava il costo della rata da pagare per l’acquisto. Con orgoglio i nuovi proprietari Ast avevano annunciato che era nato il maggior produttore europeo di laminati piani speciali. In molti, a Terni ma anche a Roma, pensarono che un problema era stato risolto. E mentre c’era chi tentava di assumersi meriti, si alzava la voce di un vecchio, esperto e smaliziato politico ternano: Filippo Micheli. Il quale avvertiva: «D’ora in poi l’interlocutore al quale dovranno esser prospettate le nostre esigenze, non sarà più il governo. Tutto dovrà dipendere dalle condizioni di mercato e non si potranno più chiedere, come in passato, in ogni occasione interventi di sostegno allo Stato».
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