L’Arma di Urbano VIII sbriciolata da un Tir

Fu una battaglia lunga, per la sezione di Terni di Italia Nostra, quella condotta per il restauro dell’Arma di Urbano VIII. Un muro, tutto di mattoni, una specie di edicola, a sorreggere  una lapide marmorea con uno stemma: tre api su uno scudo. Lo stemma della famiglia fiorentina dei Barberini, quella del papa Urbano VIII.

L'arma di Urbano VIII andata distrutta
L’arma di Urbano VIII andata distrutta

Maffeo Barberini fu pontefice dal 1623 al 1644: era il periodo della guerra dei Trent’anni, del processo a Galileo Galilei ed ai giansenisti. Durante il papato di Urbano VIII si completò la costruzione della basilica di San Pietro che egli stesso inaugurò, e fu sempre lui, il papa Barberini, a dare un forte impulso al diffondersi dell’arte barocca a Roma. Alla sua iniziativa vanno ascritte opere oggi molto popolari e conosciute come la fontana di Piazza di Spagna (la Barcaccia) o quella del Tritone, oltre al baldacchino dell’altare di San Pietro, a fianco di opere di maggiori dimensioni e di altra importanza.
Maffeo Barberini fu tra il 1608 ed il 1610 arcivescovo di Spoleto. Percorse, perciò, molto spesso la strada Flaminia che lo conduceva a Roma. E’ dal fatto che egli sostava a Strettura per riposarsi durante questi viaggi che prese nome la stazione di posta che porta ancor oggi il nome di Palazzo del Papa. Poco lontano da lì, ancora in territorio di Strettura, Proprio lungo la vecchia Flaminia si trovava l’Arma. Ce la volle Fausto Poli, il cardinale di Usigni, segretario particolare e braccio destro di Urbano VIII che l’aveva preso sotto la sua protezione proprio durante il periodo in cui era stato arcivescovo di Spoleto. Un cardinale potente, quindi, Poli. Che mai dimenticò la sua terra di origine, la Valnerina, e le sue esigenze di sviluppo. Non a caso fu colui che beatificò Santa Rita da Cascia e fece progettare al Bernini una chiesa per il suo paesino di origine. E sempre lui volle la “Via del Ferro”,  una strada che collegava la Flaminia con Monteleone e Poggiodomo, Cascia e Norcia. A Monteleone di Spoleto erano già sfruttate le miniere di ferro: la nuova via di comunicazione permetteva un rapido collegamento, che consentì di realizzare veri e propri opifici, strategici per i rifornimenti di ferro dello Stato Pontificio. Nacquero così le ferriere di Monteleone di Spoleto e Scheggino, cui si aggiunse un secolo dopo quella di Terni.
Ad imperitura memoria, il cardinal Poli volle che a segnare la realizzazione di quell’opera ci fosse una lapide proprio lì, nel punto in cui la strada incrociava il tracciato della consolare Flaminia per poi inerpicarsi verso Montefranco, scendere sulla Valnerina, seguirla fino a Sant’Anatolia di Narco e poi risalire su, sui monti, verso Monteleone.
Intorno agli anni Settanta del secolo scorso, l’arma di Urbano VIII era in gravi condizioni. E nascosta alla vista.  La Flaminia,infatti,  col passare dei secoli, aveva subito interventi per motivi di sicurezza necessari nel caso di un’arteria di grande comunicazione. L’arma era venuta così a trovarsi lontano dalla carreggiata, e leggermente più bassa rispetto al piano stradale, dietro un guard rail.
La sezione ternana di  Italia Nostra, allora guidata da Emilio Sebastiani, annoverava tra i soci più attivi uno studioso sensibile come Gino Papuli, e consiglieri d’esperienza e di livello. Quell’associazione, senza padrini politici, più che di galline s’interessò di importanti tematiche ambientali e della conservazione di beni culturali in pericolo. Così come l’Arma di Urbano VIII, testimonianza di un periodo storico importante per la Valnerina, che andava proprio per questo recuperata e restaurata. Fu una battaglia lunga, anche perché fu difficile reperire i fondi necessari e sensibilizzare gli amministratori pubblici. Ma alla fine Italia Nostra ce la fece.
Ma la sorte volle che, pochi mesi dopo il restauro, un Tir finisse fuori strada proprio in quella curva, scavalcando il guard rail e frantumando ogni cosa. Dell’Arma di Urbano VIII resta solo una colonnetta di mattoni, aggredita dalla vegetazione. Ultima collocazione conosciuta dei rottami della lapide resta una non meglio precisata caserma dei Carabinieri, forse quella di Terni . In attesa di un nuovo recupero e di una nuova collocazione. E stavolta – magari – lontano dalla strada e da curve pericolose.
Sennò l’imperitura memoria va a farsi benedire!

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