Speco di Frate Francesco, un luogo santo recuperato da don Gelindo Cerioni

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STORIA E MEMORIA

di SERGIO BELLEZZA

Storia e memoria rubriche fonderia calvi VELIVOLO

A mezzacosta, sopra S. Urbano, nel mezzo di vecchie querce ed antichi lecci, s’erge l’eremo francescano dello Speco,oasi di pace e luogo di meditazione.

Agli inizi del ‘900 si trovava in uno stato di completo abbandono e di degrado profondo. Fu don Gelindo Ceroni, ritiratosi a Itieli, lasciata la parrocchia di Collescipoli, a restituirgli le sembianze di un tempo e riportarlo all’antica dignità, con il consenso dei frati di Assisi, che lo nominarono  “custode” del convento. Lo Speco di S. Francesco tornava ad essere metà di pellegrini, momento di svago e ristoro per i cittadini, grandi e piccoli. Soprattutto dei seminaristi di Narni, che vi trascorrevano le vacanze estive, come ricordavano don Gino Cotini, don Venturino Venturini e don Gino Paiella, disboscando gli anfratti ed estirpando l’erbacce. Il recupero del monastero era il frutto di “un amore antico”, come scriveva Anna Maria Bartolucci, parlando di Gelindo Ceroni in “Collescipoli: storia e arte di un centro di confine”. Infatti il sacerdote poeta l’aveva già declamato nella sua opera,  edita nel 1930, “Lo Speco di Frate Francesco: Storia, leggenda e canti”,.

Ogni anno, la mattina del 4 Ottobre, festa del Santo, all’alba, “tra lusco e brusco”, una processione orante sale verso il convento. I fedeli rischiarano il loro cammino colle fiaccole, i cui bagliori anticipano  il sorgere del sole e la nascita del nuovo giorno. Religiosità e simbolismo si mescolano in modo semplice nella ritualità del momento. Immerso nella natura, l’uomo, con la preghiera e la fede, allontana le tenebre e s’avvicina al divino. Dimentica i frastuoni della vita e nel silenzio ritrova se stesso.

Un rituale antico, un momento magico dal sapore arcaico, una tradizione le cui origini si perdono nel tempo, ma che continua a richiamare fedeli e curiosi. Un tempo i partecipanti, oltre la torcia, portavano anche le “antusse”, semplici lustrini di pino, in modo da “rischiarare con un’onda luminosa e profumata i profondi pensieri” e creare “l’immagine di un incendio di fede”, come si legge in un opuscolo di parecchi anni fa.

Solo partecipando a quella processione, salendo la “montana vetta, vibrante d’armonie, l’umana gente potrà scoprire – come scriveva don Gelindo – lo splendore che rapiva nell’estasi San Francesco”.

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